“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è caduta sulla tovaglia. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri il sasso era grande come una montagna e sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi”. Con poche frasi Dino Buzzati riassunse dalle colonne del “Corsera” dell’11 ottobre 1963 un fatto di cronaca sconvolgente, una mostruosità che aveva lasciato attonito un Paese interrompendo per un attimo il sogno del boom economico, della rincorsa al benessere, della crescita post bellica. Perché non si poteva morire solo di malattia o per incidenti stradali, nell’Italia del 1963. Si poteva morire, in maniera assurda, anche per un disastro annunciato.
La tragedia del Vajont entrò nell’immaginario collettivo come simbolo di un Paese che cresceva forse troppo in fretta, sottovalutando i pericoli derivanti da un improprio sfruttamento delle risorse naturali. La diga, quella meravigliosa diga indistruttibile che doveva portare benessere e prosperità in un territorio aspro da cui la povera gente migrava alla ricerca di fortuna, era diventata portatrice di morte e desolazione. Ironia della sorte, quel manufatto cresciuto ombreggiando una valle ed il paese di Longarone ai piedi del Piave era sopravvissuto al disastro mentre attorno non era rimasto altro che un mare di fango.
La tragedia si era compiuta la sera del 9 ottobre 1963, ma aveva radici profonde. Come quelle dell’enorme massa franosa adagiata sui pendii settentrionali del Monte Toc, un cumulo di detriti risalenti ad epoche preistoriche che si era sedimentato ma che avrebbe potuto rimettersi in marcia in qualsiasi momento, a seguito di un sisma o di una inondazione. I tecnici della SADE (Società Adriatica Di Elettricità, poi confluita in Montedison) che avevano studiato il progetto di costruzione di una diga idroelettrica si erano rivolti ai geologi capitanati dal professor Dal Piaz per avere sufficienti rassicurazioni in materia. E Dal Piaz aveva steso una relazione ottimistica: sfasciume superficiale, nulla da temere. Una sottovalutazione che sarebbe risultata fatale. Ed a nulla erano valsi i segnali preoccupanti, dalla scoperta della grande frattura a forma di estesa M sul Toc alla frana di Pontesei nella vicina Val di Zoldo: la costruzione della diga era giunta a compimento. Nemmeno la frana del 4 novembre 1960 che aveva visto precipitare nel bacino 750mila metri cubi di roccia era riuscita a far desistere la SADE dal voler proseguire nell’azzardo, visto che i tecnici pensarono di realizzare una galleria di bypass per evitare che eventuali altri eventi franosi potessero impedire l’afflusso dell’acqua agli impianti idroelettrici.
Quando ci si rese conto dell’effettiva gravità della situazione, si pensò di studiare i possibili effetti di una caduta della montagna. Testimone di quegli studi è ancora oggi il modello geodinamico della centrale di Nove, periferia di Vittorio Veneto, in cui per lunghi mesi l’equipe universitaria del professor Ghetti ipotizzò vari scenari catastrofici, elaborando dati e soluzioni. Una di queste prevedeva l’abbassamento del livello del bacino a quota 700 metri s.l.m., una misura estrema ma giudicata di assoluta sicurezza anche nel caso di una frana enorme. Ma i calcoli della velocità di caduta erano sbagliati, come si sarebbe visto di lì a poco.
La sera del 9 ottobre 1963 la tragedia andò in scena. E come ogni tragedia che si rispetti, non poteva non esserci ogni elemento utile per aumentare le proporzioni di un disastro. La pioggia abbondante caduta nelle precedenti giornate aveva aumentato le infiltrazioni nella massa franosa, che ormai si muoveva ad un ritmo sempre maggiore. Ciò nonostante, solamente il Comune di Erto aveva diramato una ordinanza di attenzione e pericolo, invitando i cittadini a non recarsi sulle sponde del lago artificiale per non correre rischi ed anzi a sfollare dalle zone più vicine all’acqua; a Longarone invece tutto era tranquillo, la popolazione era a letto oppure all’osteria a vedere Glasgow Rangers contro Real Madrid, match di Coppa Campioni di calcio. Alla diga il geometra Giancarlo Rittmeyer, richiamato d’urgenza, riceveva la telefonata preoccupata dell’ingegner Alberico Biadene che chiedeva costanti aggiornamenti sulla situazione. Alle 22:39 la frana terminò la sua millenaria attesa e scese all’incredibile velocità di 110 km/h, in pochi secondi 270 milioni di metri cubi di roccia crollarono nel lago riempiendolo e generando tre onde devastanti. La prima onda gigante, alta bel 250 metri, scavalcò il crinale per piombare sul villaggio di Casso, abbattendosi sulle case; la seconda, ben più bassa, investì la sponda orientale del lago a Erto; la terza, mostruosa per ampiezza e potenza, strappò il coronamento della diga, distrusse la cabina comandi in cui si trovavano Rittmeyer e gli altri tecnici e precipitò in maniera impressionante su Longarone travolgendo e distruggendo tutto ciò che incontrava sul suo cammino.
Ci vollero ore per capire cosa era successo. I Vigili del Fuoco di Belluno, allarmati per l’improvviso innalzarsi del livello del Piave e per il blackout elettrico che aveva investito la zona, non riuscirono a raggiungere l’area poiché l’ondata aveva distrutto persino la statale Alemagna. Alle 5:30 del 10 ottobre i pompieri di Pieve di Cadore poterono finalmente intervenire e verificare le proporzioni del disastro. Longarone e le sue frazioni erano spariti, cancellati: “Scrivo da un paese che non c’è più” è il terrificante esordio del pezzo di un cronista de “La Stampa”, tra i primi giornalisti a raggiungere sul luogo del disastro. Al posto di una valle popolata, un paesaggio lunare, quasi da esplosione atomica. Ma la diga era sopravvissuta, quasi intatta, in maniera persino beffarda in relazione agli eventi. Le commissioni d’inchiesta ed i processi avrebbero evidenziato le falle, le omissioni, le bustarelle, i silenzi complici, i calcoli errati, le sottovalutazioni, le colpe di pochi responsabili che fecero pagare il conto salato delle loro azioni a troppi innocenti. Ci fu chi non sopportò il peso della coscienza, come l’ingegner Mario Pancini che si tolse la vita prima del verdetto. Alla fine tra formulazioni errate, scomparse per cause naturali, trasferimento del processo in Abruzzo e ritardi, l’unico colpevole venne individuato nell’ingegner Biadene che scontò due anni di carcere. Del disastro resta come detto la diga, testimone grigio e tetro, così come il cimitero monumentale di Fortogna che raccoglie le spoglie delle vittime – alcune talmente sfigurate da non essere riconosciute, altre mai ritrovate e destinatarie di una sepoltura simbolica. La memoria, 58 anni dopo quella notte terribile, è affidata alle pagine della giornalista Tina Merlin, l’autrice di “Sulla pelle viva”, un vero libro di denuncia che raccoglie anni di lavoro d’inchiesta sulla diga della morte. Perché come tante altre tragedie, anche il Vajont poteva essere evitato.
di Federico Bettuzzi
Racconti di Storia
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