Ricordo quel giorno del secondo anno di geometra, che la signora Rosa bidella mi disse di andare dal preside. Nella stanza al primo piano il preside Wolansky mi disse di farmi accompagnare da un genitore il giorno dopo. “Perchè” chiesi, non mi rispose. A casa raccontai la faccenda alla mamma, che promise di non dire niente a papà e che domani sarebbe andata lei dal preside lasciando a mezzogiorno il suo lavoro presso l’Istituto Infortuni. Così avvenne, e quando il giorno dopo, arrivai a casa, chiesi alla mamma un chiarimento in merito, mi rispose sorridendo “no’ ze beo ‘ndar a scuoea ancora coe braghe corte”, e nel pomeriggio mi condusse in via Martiri della Libertà nel negozio Buosi, e mi vestì con calzoni alla zuava e giacca con martingala sul retro con tessuto inglese grigio chiaro knikerboker. Mi sentivo un principe.
Avevo amico Gigi Bianco, lui in ragioneria, che abitava in vicolo san Leonardo, ed il nostro appuntamento di gioco era la piazzetta della chiesa con altri amici d’intorno. Ho una foto di gruppo dall’altra parte della piazza, vicino alla fontana circolare, tutti con calzoni lunghi ed era per me la prima volta a diciassette anni.
Si andava alla palestra Verdi dove ci aspettava il professor Rigo, per l’ora di ginnastica, a piedi dall’Istituto Tecnico “Jacopo Riccati” di piazza della Vittoria. E capitò nell’ultimo anno scolastico 1955/56, dopo quel venerdì di febbraio, colla “Cavalchina dello studente” al Teatro Comunale organizzata da noi geometri della quinta classe e col contributo di Ricci da parte dei ragionieri, di avere l’appuntamento per la ginnastica alla prima ora del sabato. In tre/quattro eravamo ancora vestiti in smoking. Passato il ponte di porta Calvi sulla mia sinistra, da via Verdi e sulla mia destra, una ragazza mi chiamò anche con un cenno di mano. Traversai il tratto di strada, avvicinandomi. Era una bella donna, formosa, un po’ “sprota” e mi chiese l’ora. Non ho mai portato l’orologio (ho avuto un “Omega” per la mia cresima, ma l’ho perso dopo breve tempo), e da lontano mi sono fatto dire l’ora dagli amici che proseguivano. Chiese il mio nome, e mi disse che abitava nella villa fronte la palestra. Ripresi i miei compagni di classe, che mi presero in giro. “Tita” Nardi mi disse che era una “poco di buono”.
Un giorno ero, al solito, sul sagrato della chiesa di san Leonardo, e arrivò la ragazza incontrata in via Verdi. Mi disse di chiamarsi Francesca e volle che la portassi con la mia bici verso santa Maria Maggiore, la mia parrocchia. La feci salire, felice, salutando con superiorità gli amici vicini.
Cominciai così uno strano rapporto. Lei mi “batteva”, cioè cercava in qualche modo di incontrarmi. Così mi avvicinò al cancello di casa sua, arrivò più di una volta a san Leonardo e perfino sotto la Loggia dei Trecento. Avevo saputo da Arturo Zucchello che era la sorella di Tommasi un cameriere di piazza, amico dei rugbysti, ai quali però faceva infiniti scherzi, spostando scarpe e/o le canottiere nello spogliatoio, annacquando il bicchiere di vino alla “Taverna fiorentina” in vicolo Pescheria (dove gli atleti, dopo gli allenamenti allo stadio, andavano a vedere la bella ragazza formosa), allacciando le spighette in scarpe diverse, ecc. Zucchello mi aveva raccontato che era emigrato in Canadà e che era soprannominato “il vampiro” per tutte le disavventure che procurava. Una volta successe che il cameriere Tommasi si inoltrasse da solo sull’isola della pescheria dall’unico ponticello esistente. Le voci delle persone si persero, gli uccelli non cinguettavano più, le fronde degli ippocastani si fermarono. Un silenzio minaccioso che spaurì il “vampiro” che capì di essersi imprigionato. I rugbysti lo presero, lo infilarono nella bella grande vasca (dov’è finita?) turando il foro d’uscita, lo tennero fermo mani e piedi per annegarlo. Lo salvò Piero “Paciara” Trevisanello compagno di squadra di Arturo (emigrò in Venezuela), e il fruscio degli alberi riprese consistenza col vociare della pescheria.
Francesca Tommasi non era una fanciulla, aveva sette/otto anni più di me, ed era una “malafemmina” d’alto bordo ben nota alla trevigianità, perché all’Albergo Continental si ritrovava tutte le sere per un aperitivo al bar dell’hotel, dove si “offriva” assieme all’amica Luciana Oro, in attesa di compagnie. Questa “seconda ragazza” è un’altra storia che si interseca, avendo io progettato due fabbricati a sei alloggi a Canizzano di proprietà dell’amico impresario Camillo Mardegan, venduti quasi tutti agli avieri del vicino aeroporto, ma anche un appartamento alla signora Oro da Conegliano con la figlia Luciana (che mi ha rubato dall’auto un pupazzo regalatomi da un’amica). E dunque ero quel trevigiano amico di due prostitute di classe, loro al Continental in attesa di clienti, io con gli amici Sandor,”Cocco”, “Ceka”, “Neni” sul salottino d’ingresso perché ci eravamo fatti amici di Ivano il barman impeccabile. A quel tempo a Treviso, eravamo invidiati per la nostra spavalderia e spensierata vita notturna, non soltanto per il fatto di entrare tranquillamente in quel elegante albergo di Napoleone Moretti, vicino al “Carlton” a porta Altinia.
Questo strano legame di amicizia è anche il motivo che mai ho avuto rapporti sessuali con lei.
L’ho seguita, ed un po’ aiutata nell’età avanzata e nel bisogno, avendo cessato le sue prestazioni.
Giocavo a rugby con l’lgnis Treviso col presidente Renato Brisolin, che una volta ci lasciò la sua camera sopra la bottega in piazza “Hesperia”, noi tutti sul divano (il “Cocco”, “Neni”, Sandor ed io) perché Francesca e Luciana, distese sul letto una sopra l’altra, ci hanno dimostrato come “stimolare” e “far godere” i clienti vecchi. Con una mano dal didietro toccavano il fallo dell’ignaro poveraccio che pensava di aver fatto l’amore con una prostituta di alto livello e logicamente di alto costo. Per inciso, capitò che il “Cocco” seduto sul lato sinistro del divano, allungando un braccio per tenersi in equilibrio, toccò la borsetta della Luciana da cui fuoriusciva un rotolo di banconote, ne sfilò un “deca” che impiegò per l’acquisto di benzina della sua auto e pure per una bicchierata di whishy.
La Francesca trovò alloggio in via Oriani, spesso passava davanti l’osteria della Ettorina Arman dove mi trovavo e qualche volta accettava una bibita quando c’era poca gente. A casa sua sono andato nel 1977 a fotografarla con il giovine Francesco Moretti (e lo volle anche il giorno dopo), per il mio libro “Treviso l’ultima” sui personaggi “trevisani”. Era senza soldi, e la consigliai di vendere l’appartamento mantenendo l’usucapione fintanto che fosse in vita. Non lo fece, ed un giorno seppi che era morta.
La Luciana, invece, era andata ad abitare, prima nel condominio davanti allo stadio del calcio, poi in via Piave sui lunghi fabbricati dove ancor oggi c’è il Catasto. Lei abitava più in fondo, dove sono andato una volta o due, ma ormai era sola e “sorpassata”. E’ un brutto termine, ma è realtà, e sono ricordi che diventano miei soltanto, perché ho perduto il “Cocco” e “Ceka” e Sandor Peron. Tuttavia non voglio vivere di ricordi, li voglio raccontare.
[tre foto di Francesco Moretti dal mio libro “Treviso l’ultima”]
di Giorgio Fantin