La via risuonava per il carretto dello straccivendolo che sobbalzava sui sassi della strada, così ancora “tappezzata” dopo la guerra. “El strasaro dòne, ze cuà el strasaro, fero vcio da vèndar” era la cantilena là vicino alle suore Canossiane. Dove noi ragazzi fiondavamo (si può dire?) le fanciulle che andavano a scuola, oppure suonavamo di sera inoltrata il campanello dell’Istituto, perchè sempre si apriva la spia dalla piccola botola a soffitto (che forse è ancora là). Una volta, fingendo pure di fare la pipì sul portone d’ingresso! La grande porzione del muro ad angolo sul lungo portico era l’appoggio di quando giocavamo a “scondicuco” e “mòmoea vegna che el cul me tegna”.
Ho abitato. E sono nato, nell’appartamento al primo piano del civico 9, di proprietà delle sorelle Sarzetto (una, dopo, è stata la mia professoressa al “Riccati” luna rossa la chiamavamo), col sottoportico in parte affrescato lungo le case, e la fontana proprio davanti che d’estate ci allietava col suo rumore d’acqua corrente.
Quella piccola piazzetta era disegnata a triangolo dal marciapiede, dove noi giocavamo con i “cuerceti” dov’era infilata la figurina del “nostro” campione, e ci spaccavamo le unghie per tirare più a lungo possibile su quei rettilinei di pietra grigia. Giocavo con Carletto, un ragazzo che abitava in vicolo del vento, parallelo a via Manzoni, e che aveva giocattoli bellissimi, “el mato” lo chiamavamo. Seppi anni dopo che la mamma “siora” Luisa era la compagna del signor Camporini proprietario dei casini in “cae de oro”, e che poi Carletto fu accudito nel manicomio di Oderzo. Mio fratello maggiore, invece, era amico di Vittorino e Alvise che abitavano più avanti sul vicolo, ma se ben ricordo con finestre su “mia” via vicino alla proprietà Mobilificio Moretti. Vittorino aveva una importante raccolta di francobolli e ne scambiava con mio fratello (collezione che poi passò a me), e lavorava come cameriere nel caffè Soghitta davanti alla chiesa di santa Lucia in piazzetta san Vito.
Mentre dell’altro fratello Alvise sapevo che era un importante seguace comunista. Io ero soltanto un capo aspirante gruppo Sud della parrocchia di santa Maria Maggiore. Fianco casa mia abitava “Giovanin sensa paura”, senza papà, ma la mamma lavorava nella “Pasticceria Bosio” in Calmaggiore.
Ultimata la scuola commerciale , un bel giorno partì con mio cugino Gianni Rech in Australia, si laureò avvocato con continui spostamenti a Londra e Roma, e divenne il primo notaio italiano con altri nove legali.
Il notariato era inesistente nell’Australia di allora, mentre era molto presente in Europa. Andai in Australia a vedere il primo campionato del mondo di rugby, Giovanni Scomparin abitava a Melbourne, ma inviò a Sidney, dove avevo prenotato l’albergo, l’amico Gimmy Pellizzari trevigiano per darmi i dollari australiani richiesti, che ricambiai in lire alla sua mamma al mio rientro a Treviso.
Con Giovanin si giocava sul fronte strada di via Manzoni, ma anche sul retro intercluso (ora piazzetta san Parisio) che era il nostro paradiso, con una montagnola alberata e il gioco bocce della “Taverna fiorentina”, finché la “borella” non fu eliminata e così la montagnola spianata diventò proprietà comunale.
Via Manzoni era la strada dei falegnami, perché già dall’inizio da via sant’Agostino esisteva una bottega di legna e carbone, sotto casa “mia” c’era il falegname “sior” Carlo Damian con garzone Oscar Bonacina “tapabuchi”, sul fronte davanti sttrada il vecchio artigiano Dino Perini restaurava e rifaceva mobili vecchi, con la sorella “lustrofin” che mia veva insegnato a lucidare i mobili di noce, e col figlio Franco (per noi “Coppi” perché era il più bravo in bici da corsa, più di mio fratello), a fianco sempre sul lato della strada fronte casa mia c’era la bottega dei pittori=tinteggiatori Biaducci, padre e due figli (Carlo, il più giovane, mi disse “te sarà un omo cuando te sentirà el primo gusto del rosseto de ‘na tosa”), più avanti sotto il palazzo Bressanin il falegname Carlo Salone, che aveva soppiantato il ricovero di Toni Zaniol zio dei Casellato con l’auto piena di paglia per le uova e le galline “de casada”.
Più avanti ancora (fuori della mia “giurisdizione”) il grande “Mobilificio Moretti” col proprietario Napoleone che non dava confidenza a nessuno e pure con un figlio di “altra sponda”, a fianco la bottega del vecchio falegname Bornello (si diceva che avesse fatto modificare il cognome, in origine Bordello) con i due figli che hanno espanso con grossi affari la ditta per i nuovi mobili svedesi, e più avanti ancora dopo il pensionato c’era la bottega dei Rosso.
Tutti falegnami! C’era anche l’osteria da Arman in via Man-zoni, dove papà mi mandava per un fiasco di prosecco quando ancora non era conosciuto come eccellenza, e ricordo soltanto due ostesse dietro il banco con una traversa sempre diversa. Era l’osteria “ae do rode” perché prima esisteva di fronte una fontana con una ruota normale ed una più piccola per i bambini.
Era l’osteria dei “osèi morti” frequentata dai vecchietti del vicino pensionato, da persone più anziane, da giocatori impegnati e sbraitanti alle carte trevigiane. Fu negli anni settanta che il mio giro dell’”ombreta” si allontanò dalla piazza verso la vecchia via Manzoni, perché già mi ero trasferito in piazza san Francesco (“mai un metro indrio dea piassa”, aveva sentenziato papà) dove re-incontrai quella simpatica signora di nome Ettorina, senza più la sorella “Effa”.
Entrai cordialmente in amicizia, anche perché era lei che mi ricordava il babbo e Guido Bianchin abitante sulla stessa via con due figlie (la più giovane bellissima) e altri amici gaudenti.
Ci trovavamo con Toni Basso, dentista mio educatore quand’ero “aspirante” a “Madona Granda”, e gli amici miei/suoi Andrea Cason, Giorgio Garatti, Bettis pittore, “Ciano” Pavan, Moretto, Michieletto e Beppe Mora vignettista, ecc. L’osteria diventò così il punto d’incontro, la “nostra”casa, l’obbligato appuntamento sotto la dolce sorveglianza della Ettorina, che accoglieva le amicizie laiche, ma devota ai suoi avventori.
Dopo il restauro dell’impresario Brandolin, mio compagno di scuola, ho iniziato a riempire le pareti con quadri per mostre pittoriche, poesie personalizzate, Cancian e Rossi e Martini, rugby maschile e femminile, personaggi trevisani di Ennio Comin, fumetti di Giorgio Cavazzano, foto del mercato cittadino vecchio e attuale, ecc. Ettorina abbassò con dispiacere le arti magiche che l’osteria donava. La “mia” via Manzoni è cambiata. Non c’è più “el strasaro” e neppure l’uomo che ci portava ogni mattina il latte, neppure il “casuin” Danesin, neppure il “forner” Conte in pescheria.
Il falegname Damian ha lasciato la bottega per dare spazio all’apertura del sottoportico alla piazzetta san Parisio coi suoi fruttivendoli, le vetrine dei vecchi mobili di Perini sono fredde, dove stava “Giovanin sensa paura” c’è una bottega di articoli tecnici e di cancelleria, e anche le suore Canossiane da tempo hanno abbandonato il sito. La via è silenziosa, bambini per strada “necil”, ora c’è passaggio di autobus e di tante macchine, più in là resiste l’osteria Arman con Stefano Zanotto e altri locali poco più avanti verso la piazza del mercato di martedì e sabato. Gli immobili di Moretti con la vecchia chiesa sono “immobili”, e il complesso delle suore Canossiane è silenzioso per “colpa” del padovano Bano nuovo proprietario con tanti uffici
di Giorgio Fantin