Tradizione è anche il nostro rugby a Treviso.
Abbiamo festeggiato nel 2006 il primo titolo Italiano conquistato nel lontano 1955/56 e nel 2012 gli ottant’anni della nascita. Ho letto che anche noi apparteniamo a quelle “ricchezze” del nostro Nord/Est lasciato alle spalle la guerra, dimenticato le “buanse”, abbandonate le “galoscie” e il libretto dove il “casoin” Danesin che si trovava in via Sant’Agostino mi segnava la spesa dei fagioli avvolti nella carta paglia gialla e dello zucchero nella carta azzurra oltre a tutti gli altri viveri, portare un profugo in casa a Natale, accogliere un poveraccio amico di papà con le fasce alle gambe che chiamavamo “Badoglio ebete”, le elementari alle Prati con il Maestro Scagnet, le medie in piazza San Francesco con la professoressa Brandi con Bassetto capoclasse e sempre con gli amici Gigi Bianco e Tullio Tauro, che passarono poi, uno al Riccati e l’altro al Liceo Scientifico con Franco Casellato.
La parrocchia era il nostro svago, però soltanto dopo la dottrina obbligatoria e la vendita di giornali e riviste religiose sul sagrato di “Madona Granda”. Si faceva qualsiasi gioco sugli alberi, sulle macerie del vicino macello e della piazza, poi il pallone dietro la sagrestia, la prima pallacanestro (perché c’era la squadra “Miani”), gare di atletica e di ciclismo con le Olimpiadi “Vitt” che avevano inventato fra i quattro gruppi di giovani di cui era stata divisa la parrocchia.
Ho anche il ricordo che, saltando il muro che separava il cortile dal canale delle Convertite, per gioco e per allenamento sulla sabbia, caddi e sbattei il mento sul ginocchio e mi morsicai la lingua. Corsi a casa con la lingua a penzoloni per fortuna l’ospedale era a S. Leonardo quindi vicino e immediatamente mi applicarono tre punti di sutura.
All’Istituto Riccati, al secondo anno, la bidella siora Rosa mi disse che il preside voleva che il giorno successivo fossi accompagnato da un genitore. Ero sorpreso perché non avevo fatto niente di male tanto che la cosa sembrò strana anche a mia mamma. La mattina seguente, mia madre mi accompagna a scuola e chiede spiegazioni e il preside rispose che avrei dovuto andare a scuola con i pantaloni lunghi perchè quelli corti che indossavo mi procuravano un eritema bluastro all’interno delle cosce.
Il giorno successivo mia madre mi ha accompagnato da “Buosi” e mi acquistò dei vestiti a rate e un completo sale e pepe di calzoni alla zuava e giacca con martingala applicata tanto da farmi sognare di essere un principino.
L’Istituto tecnico Riccati svolgeva attività sportiva e ogni anno c’erano i campionati studenteschi di atletica dove gareggiavamo contro il Canova, lo Scientifico, il Pio X°, il Cavanis e il Filippin ma Toni Pin raccoglieva volontari anche per allestire una squadra di rugby per il campionato scolastico.
Seguendo nel 1952 mio fratello sul campetto dell’Appiani, ho iniziato i primi allenamenti nel 1953 esordendo assieme a Sartorato, Feletto, Erri, Pin, Bellieni, Schiavinato che era già provetti rugbysti battendo, “l’odiato” Pio X° con la supervisione del “grande” Maci Battaglini. Questo sport era osteggiato anche dalla mia famiglia perché considerato violento e giocato da “pochi di buono” dicevano i miei genitori che invece erano appassionati di calcio.
Pure la piazza guardava con diffidenza quelle compagnie dai pesanti scherzi a carnevale, che vivevano fra i canottieri ed il casino di via Marzolo, che disturbava nelle sale cinematografiche ed durante le feste che eseguivano molte spedizioni punitive sulle mura contro qualche pederasta che si abbuffava di paste da Casellato in piazza del Duomo.
Eppure noi studenti ci siamo inseriti con entusiasmo, vicino al pilone Carnio (“cassiere” perché portava casse al mercato ortofrutticolo), ai cugini Perini e Peron dipendenti del “formajer” Antonio Basso in riviera Santa Margherita vicino all’altro negozio di Buttazzoni dove lavorava Zucchello, Mirko Borelli e “Ciceti” Pattaro, originari di Calle dell’Oro a “Lolo” Levorato a Piero “Paciara” Trevisanello con “Ceto” Zucchello i primi a Treviso ad indossare un paio di jeans.
Un anno dopo, il nuovo allenatore rovigoto, Aldo Milani Cecchetto sopranominato “Topa” mi inserì in prima squadra dopo avermi difeso con braccia e gambe prendendo alto il pallone “sloso”, ma dopo avermi prima fatto cadere con un pugno nello stomaco e poi strattonandomi per la maglia cacciandomi a terra con violenza. “Ghetu capio” sono state le sue parole.
Finito a mezzogiorno un esame di riparazione in quarta geometri, mi portarono ad esordire in una amichevole a Grenoble in Francia dove conobbi Sergio Lanfranchi, e da dove sparì un orologio d’oro Dupont, ritrovato poi a Treviso e dove facemmo una foto della squadra con le braghe abbassate e il culo di fuori.
A Roma per la prima partita di campionato, arrivati a mezzanotte in treno e avevo messo la sveglia per poter andare a messa che era prevista per mezzogiorno ma capitan Zucchello mi fermò e mi impose di tornare a letto per riposare perché dopo pranzo c’è una partita. “A messa se manco importante dea partia -sentenziò-. A messa te andarà naltra volta.
Questa tradizione logica del rugby è stata il vangelo della mia maturità, superando non senza dimenticare, il ristretto circolo della parrocchia. Ricordo che verso Parma, nel 1955 in pullman con il Faema rugby e con la squadra del Casale perché doveva giocare con il Noceto.
Ci fermammo per una breve sosta e pausa caffè prima di attraversare il Po (Sartorato svegliatosi di colpo pensava fosse il Sile!) e nel panificio Granzotto, vicino a Casale, si fece addebitare la spesa sul libricino che aveva in tasca.
Quell’anno, 1955/56, vincemmo il primo scudetto di rugby, io diciottenne assieme a Berto Foglia e Gigi Carniato.
di Giorgio Fantin