Dante Callegari è un pacifico signore che si è proposto il compito di conservatore del dialetto, delle radici venete e della civiltà contadina. È fecondo autore di apprezzate e godibilissime opere che sono lo specchio del nostro passato. In un’era di globalizzazione lo scrittore offre ai lettori, non solo a quelli avanti con gli anni ma anche a quelli sotto gli anta, vari quadri di vita vissuta, quando imperava il dialetto e la vita era più agra di quella odierna, ma più serena, meno aggressiva e vissuta con una serenità che metteva l’uomo in sintonia con la natura.
Ora Callegari ha edito per il padovano Vincenzo Grasso un altro lavoro di recupero della nostra cultura con il titolo di “Storie e tradissiòn venete”. Duecento pagine in cui sono raccontati alcuni episodi storici che hanno a che fare con il Veneto. Con una acribia e conoscenza letteraria invidiabile il nostro autore ripropone, con una ironia degna di lode, fatti e avvenimenti che hanno avuto a che fare con alcuni luoghi e personaggi della Marca che più gioiosa di così non potrebbe essere.
Ma perché Callegari impiega il dialetto? Perché il dialetto è lo specchio dell’anima, è immediato e sincero al contrario della lingua che è mediata e non riflette lo spirito dell’interlocutore.
«Ho scritto in dialetto – dice l’autore – perché non si perda la storia di questa grande ricchezza che si sta consumando nell’anonimato. La più bella emozione che la civiltà contadina poteva regalare era la gioia di convivere e condividere l’avventura della vita in tutte le sue esuberanze e in tutti i suoi limiti. Io ho vissuto la vera gioia che purtroppo non ritrovo nell’esperienza della civiltà moderna».
Sembra un po’ il classico rimpianto di quella che autori di tutti i tempi hanno avuto per una sognata, ma mai vissuta, età dell’oro.
Che Callegari e i suoi coetanei hanno, invece, assaporato.
Vita contadina e religione andavano a braccetto, quasi sinonimi. Lo confermano le ricorrenze del calendario contadino. Come la tradizione del porzel de S. Antoni in onore del santo abate del 17 gennaio che sovrintendeva alla protezione degli animali. Non vi è vita contadina senza animali, fedeli compagni di viaggio sui campi, nella stalla, nei pollai. Da qui si traevano il latte, il formaggio, il butirro, la carne per la domenica, le uova.
Quella che è una delle piaghe della società attuale, cioè la solitudine, allora non esisteva. «A chèi temp nessun restèa sol…l’era che tuti i se volea ben». Ecco poi l’importanza di prevedere il tempo per svolgere i lavori dei campi. E ancora i proverbi che erano – sulla scorta del Manzoni – la saggezza dei popoli. Callegari ci trasporta nei luoghi più noti della nostra regione. Dal Piave, che era originariamente la Piave, ma poi Carducci e D’Annunzio l’hanno fatto diventare maschile.
C’è la tradizione del do de agosto la festa degli uomini. Spassoso il racconto sull’ambasceria di Dante, il padre Dante, al papa e sulla sua Divina Commedia. Dante, qui nella Marca, ha lasciato in ricordo le spoglie del suo figliolo Piero sepolto a S. Francesco. Non poteva mancare l’accenno al capodanno veneto, che era il 1. marzo.
Saltando nella parte alta della Marca, Callegari ci racconta la storia della piera miracolosa de S. Augusta, uno dei luoghi simbolo dell’attuale Vittorio Veneto. Perché è miracolosa quella piera? «Parché la te fa passar el mal de testa e anca altri mai che te ga…sempre che, ben s’intende, te gappia quel tant de credensa che in ‘ste robe bisogna aèr».
E ancora la storia degli Ezzelini per finire con l’immancabile Mazariol che non si sa ancora bene che cosa fosse. Probabilmente soltanto un personaggio immaginario spuntato dalla fantasia popolare.
Alla fine delle duecento piacevolissime pagine il lettore non potrà che ringraziare l’autore di averlo condotto per mano lungo strade e tradizioni che hanno accompagnato i nostri antenati per varie generazioni.
E noi dovremmo dimenticare questi tesori popolari, ad iniziare dal dialetto, che stanno alla base della nostra esistenza storica?
di Sante Rossetto