Basato sul popolare gioco sparatutto lanciato nel 2001, “Halo” è sbarcato sul piccolo schermo con una prima stagione marchiata Paramount+.
Plauso di pubblico e della critica per un prodotto di qualità, con una forte impronta femminile
ed un notevole tocco drammatico.
Oltre vent’anni fa il mondo dei videogames venne rivoluzionato da due eventi strettamente connessi tra loro. Il primo fu l’immissione sui mercati della prima XboX, la progenitrice di una nuova piattaforma di consolle voluta dal magnate di Microsoft Bill Gates per sfidare il monopolio Sony-Playstation. Il secondo fu il lancio commerciale di “Halo: Combat Evolved”, uno sparatutto pensato in esclusiva assoluta per il mondo Microsoft e che ha creato legioni di fans oltre alla definizione di diciassette capitoli differenti – l’ultimo, “Halo Infinite”, è stato rilasciato nel 2021 ma non ha ancora concluso la lunga saga.
Dopo milioni di giochi venduti, siti dedicati, convention, persino cosplayer dei protagonisti e degli antagonisti e dopo
diverse anticipazioni, questa primavera l’universo di Halo è sbarcato sul piccolo schermo offrendo una nuova, sorprendente possibilità di lettura di un metaverso del videogame. Già perché lo show, prodotto da Paramount+ e dalla 343 Industries (la branca di Microsoft che segue il progetto Halo dalla chiusura del rapporto con la Bungie), è qualcosa che amplia l’orizzonte ben oltre il videogame, dotando il protagonista principale ed il suo grande supporting cast di una complessa storia per-sonale che affascina lo spettatore.
Nelle nove puntate della prima stagione, trasmessa in streaming negli States ed in Italia dal canale Sky Atlantic, scopriamo le origini di John-117, il protagonista dello sparatutto.
E lo facciamo rompendo subito un tabù, ossia guardandolo in viso: se all’interno del gioco il volto del supersoldato geneticamente modificato che deve compiere le missioni è sempre celato da un casco ermetico, in televisione già dopo 15 minuti del primo episodio Masterchief si leva l’elemetto e rivela le fattezze di Pablo Schreiber.
L’attore, fratellastro del più noto Liev, buca lo schermo con il suo volto duro, ammaccato, sofferente e deciso regalando un’interpretazione da applausi: attraverso il suo percorso di riscoperta si comprende l’enorme assurdità del programma Spartan, i supersoldati creati sottraendo i bambini alle loro famiglie per allevarli in strutture militari, modificati con innesti cibernetici ed infine potenziati attraverso un allenamento disumano.
Il John-117 di Schreiber compie un viaggio a ritroso in un XXVI secolo di esplorazione spaziale orientandosi tra barlumi di memoria, riscoprendo il valore dell’amicizia di colleghi e superiori, esplorando l’amore di una spia nemica (la Makee di una intensa Charlie Murphy) e comprendendo il tradimento dell’unica donna che riteneva simile ad una figura materna ossia la dottoressa Catherine Halsey (Natascha McElhone), creatrice del programma Spartan. Ma non c’è solo John-117, in “Halo”.
Ci sono i Covenant, gli alieni coalizzati da una falsa profezia e votati alla guerra santa contro gli umani, qui realizzati con una pregevole CGI.
C’è Cortana, l’intelligenza artificiale che guida il protagonista e lo supporta, di cui è mostrata la nascita correlata all’esigenza di migliorare le prestazioni sul campo di Masterchief.
Ci sono i ribelli umani, coloni spaziali che reclamano indipendenza il cui araldo è una ragazza, Kwan Ha, la cui famiglia è stata sterminata dagli alieni e che è in fuga dai cacciatori di taglie di un governatore dispotico.
C’è il complesso rapporto padre-figlia tra il capitano di vascello Jacob Keys (co-protagonista nel primo videogame) ed il tenente Miranda Keys, qui resi in chiave afroamericana dalla coppia Danny Sapani-Olive Gray. E poi ci sono loro, gli Spartan, umani potenziati per combattere dentro armature avveniristiche, condizionati dal controllo mentale esercitato dalla loro creatrice su alcuni di loro contrapposto alla voglia di pochi – John, il ribelle Soren-066, la tiratrice scelta Kai- 125 (interpretata da una magnifica Kate Kennedy) – di scoprire un universo di emozioni reali e privo di condizionamenti.
“Halo” è prodotto di nicchia e di massa al tempo stesso. È una saga di fantascienza ma è anche un trattato di psicologia, è uno sparatutto così come una caccia al tesoro, è una storia impossibile ed al contempo di stretta attualità. È un affresco: multiculturale, multilinguistico, sociologico, antropologico, archeologico, scientifico. È un successo, ovviamente: dopo i nove episodi della prima stagione, gli spettatori reclamano a gran voce un seguito per capire cosa ne sarà del desiderio di indipendenza dei coloni, della scienziata pazza in fuga dalle autorità, del desiderio di John e di Kai di ritrovare i loro veri genitori, della ricerca degli alieni di quel famoso anello che dona il nome alla serie. Perché ruota tutto attorno ad Halo, il simulacro di una religione più falsa di quella di Wilbur Mercer nel celebre romanzo di Ph. K. Dick, il mondo-fortezza creato centinaia di migliaia d’anni prima da una razza estinta.
Un obiettivo che cela un tremendo segreto di cui né gli umani né i Covenant sono ancora a conoscenza e che promette una superiorità militare ai primi ed una beatitudine salvifica ai secondi. Ma sarà solo una pura illusione prima di scoprire l’amara realtà, che sarà illustrata probabilmente nella prossima stagione di una serie che promette altri colpi di scena.
di Federico Bettuzzi